Sono passati quarant’anni dal 25 Aprile 1945, cosa ci hanno lasciato quegli anni della nostra giovinezza, vissuti intensamente che ci hanno costretti a diventare maturi prima del tempo?
Perché parlare di quei giorni lontani… quando le famiglie, rischiando, ti davano asilo; quando Alessandro Crespi perdeva il figlio Luigi e gli devastavano la casa; quando il rischio dell’azione era accettazione; quando chi era imprigionato, come l’amico Francesco Zerba, ad ogni cigolio dei catenacci doveva temere per la propria vita…
Parlare dei rischi e delle azioni è sempre una cosa imbarazzante soprattutto quando chi ci ascoltano hanno l’abitudine di vedere con l’occhio interessato di chi, da ogni circostanza, deve guadagnare qualche cosa.
Difficile è anche quando ci rivolgiamo a coloro che criticano sempre, guardando la realtà solo dal punto fermo della loro finestra, senza mai scendere sulla piazza (forse per la paura di sbagliare?). Certo è che l’orologio fermo segna l’ora esatta due volte al giorno.
Costoro non sbagliano mai e mai potranno ammettere, e tanto meno tollerare, l’uomo d’azione le cui imprese danno a loro uno specchio per riflettere sulle proprie debolezze.
Allora perché parlare, se parlare è una esperienza così difficile? Lasciare questo compito ai morti?
Perché parlare di quel tempo, perché ricordarsi delle sofferenze vissute nelle prigioni?
Si impone però una riflessione. Se è vero che noi amiamo la salute quando siamo ammalati, se è vero che noi amiamo la libertà quando non ci è più concessa, rileggendo la recente storia con coloro che la contestano, non solo ricorderemo quanto sia stato difficile conquistare la Libertà, ma soprattutto quanto sia facile perderla. Ai giovani diremo che essere cittadini di un paese libero può diventare un limite perché non ci fa più meravigliare del dono della Libertà. Tutti dobbiamo avere sotto gli occhi il testo di quella storia, non certo per fomentare rancori o per fare del trionfalismo ma perché coloro che non ricordano la storia e i suoi insegnamenti, sono condannati a commettere gli stessi errori. Ed è giusto ricordare, anche per commemorare coloro che per nobiltà di ideali si sacrificarono per la Libertà e languirono nelle carceri, morendo lontano dai loro cari.
Inchiniamoci con riconoscenza alla loro memoria.
Mi è cara una citazione di Dostoevskij:
“un uomo che non si inchina a nulla , non potrà mai sopportare il peso di se stesso”.
Ricordiamo le mani ignote che scrissero sui muri delle carceri gli ultimi pensieri rivolti ai loro cari! In tutti traspare la certezza della utilità e della ragione del loro sacrificio per una società libera.
Citiamo qui l’ultima frase di un fucilato: “Chi vive solo per sé, chi solo per sé cerca la felicità, non vive bene e nemmeno felice”.
Tutto questo ci da motivo di riflessione, sia che stiamo vivendo un momento di gioia , sia di amarezza. Questi avvenimenti che cosa possono dire agli uomini dopo 40 anni? Dicono che la capacità di sopportare ogni difficoltà raggiunge limiti estremi in chi crede nella giustizia e trasmette la capacità di vedere in trasparenza la storia dell’uomo, per scoprire in essa la costante salvaguardia del dono che si chiama Libertà. Locuzione molto cara al maggior rappresentante della filosofia scolastica, S. Tommaso D’Acquino, uno dei più grandi pensatori dell’umanità. Nelle innumerevole dispute sulla libertà, si esprimeva con questo concetto: “lo stato, il cui primo dovere consiste nel mantenimento della pace, senza della quale non è possibile il libero sviluppo del benessere, delle virtù e della cultura, non deve violare i diritti della personalità umana, nessun popolo ha il diritto di schiacciare e oltraggiare un altro popolo, nessun uomo ha il diritto di schiacciare e oltraggiare un altro uomo; in questo caso i concittadini possono anche ribellarsi e ricorrere alla forza”.
Si può diventare ribelli anche per amore verso coloro che non si conoscono, verso i deboli, verso chi non sa difendersi (o non può), per le famiglie di italiani di religione ebraica che vennero sterminate dalla furia nazista. A pochi chilometri da noi, sul lago Maggiore, violando i limiti della natura umana non si risparmiarono nemmeno i bambini. Uno degli episodi più raccapriccianti è successo a Meina, alla famiglia Fernandez. Ci limiteremo ad una esposizione sintetica degli avvenimenti che portarono alla fine tre bambini. Giovanni (di 15 anni) Roberto (di 12 anni) e Bianca (di 8 anni). Dopo aver visto le S.S. Portare via, prima i genitori e poi i nonni, furono visti affacciarsi muti, lividi di terrore, alla finestra della loro camera. Nessuno ebbe il coraggio di intervenire . La mattina successiva al massacro degli adulti le S.S. Ritornarono alla casa, salirono all’ultimo piano, abbatterono la porta (contro la quale i bambini avevano ammucchiato i mobili) e li condussero via mentre le loro urla rintronavano per le scale.
Qualche giorno dopo (il 22 Settembre 1943) le correnti del lago riportarono le salme dell’intera famiglia a riva ed allora si vide che gli adulti presentavano un foro alla nuca mentre i bambini erano stati legati insieme, tutti e tre, con del filo di ferro, mano con mano, piede con piede e gettati vivi nel lago Maggiore.
Le S.S. li avevano uccisi spingendoli sott’acqua a colpi di remo. La stessa sorte la subirono altre famiglie italiane.
Non dimentichiamo che la violenza e la sopraffazione portarono nel buio la libertà, bene fragile come cristallo.
Che cosa ci ricordano queste cose dopo 40 anni?
Che cosa ci dicono i giorni di Casate – Bernate, gli uomini e le famiglie che sfidando il pericolo si misero a disposizione verso coloro che ne avevano bisogno?
“Se un uomo ha bisogno d’aiuto, non importa se non lo si conosce”, diceva Giuseppe Villa affittuario della cascina Leopoldina, confinante con il territorio di Casate e quartiere della formazione Gasparotto comandata da Angelo Spezia, “non importa chi sia, è un uomo che ha bisogno di noi”.
Così venivamo accolti nella sua casa tutti coloro che bussavano alla sua porta. Come non ricordarsi di quest’uomo? E di sua moglie Vittorina deportata in campo di sterminio di Ravensbruck, delle figlie Giulia e Mariuccia imprigionate nel carcere di San Vittore, dei 4 fucilati: Carlo Berra, Giovanni Gualdoni, Giovanni Giassi e Giordano Giassi, dei 10 deportati e dell’altro amico Giovanni rossetti, caduto in combattimento ad Arona.
Che dire del compianto Don Visconti, parroco di Casate, coraggioso e responsabile, si assunse il pericoloso compito di nascondere nel solaio della canonica un soldato tedesco nostro collaboratore condannato a morte per manifesta idea antinazista?
Come dimenticare Felice Frattini e il suo fienile, deposito sicuro di armi tenuto segreto pure ai suoi familiari? (fu sindaco socialista prima della parentesi fascista e dopo la liberazione).
Non possiamo dimenticare il camino, Santa Barbara della formazione, all'”osteria della Rosa” e le famiglie di Rubone e i loro fienili che servivano alla formazione come ricovero per i ricercati e come deposito di armi.
Ricordiamoci di queste amabili famiglie. Bernate con il suo sicuro territorio fu anche punto di ritrovo e di incontro. Ne ricordiamo uno in modo particolare, quello avvenuto con Albertino Marcora (vice comandante del raggruppamento di divisioni Alfredo Di Dio), in seguito ad una allettante proposta di collaborazione avuta, dopo sondaggio rischioso, da un agente tedesco.
Ci è caro fare questa dissertazione per citare una circostanza insolita. Martino Garavaglia ci aveva parlato del sergente che aveva manifestato idee antinaziste e ansia di collaborare con la Resistenza. Sentiti Albertino, Gino e Carletto, dopo le debite valutazioni riguardo i rischi che correva la formazione, decidemmo di accettare la proposta del sergente tedesco che ci prometteva un congruo numero di armi leggere, frutto bellico. In attesa di uno sviluppo della situazione, attendevamo speranzosi una sua prova di lealtà.
Dopo pochi giorni il sottufficiale ci informò che era pronto a darci le armi a condizione che la consegna dovesse svolgersi in un luogo da lui prescelto e che il ricevente dovesse essere un capo partigiano.
Albertino era piuttosto scettico al riguardo, perché le proposte del sottufficiale non davano garanzia di sicurezza, comunque ci consigliò di risentire il sergente della Wehrmacht. Questi motivò le sue richieste dicendo che l’incontro con un capo partigiano era una aspirazione che coltivava da tempo; (gratificazione?) in quanto al luogo dell’incontro ci espose le sue difficoltà nell’uscire dalla caserma, nel trasportare le armi, nell’evadere la sorveglianza, ecc.. Accettammo.
Come punto d’incontro scelse l’alzaia del Naviglio Grande tra Bernate e Boffalora, all’altezza del “Munt Ragunt” alle ore 22 precise e io fui designato ad andare all’appuntamento. Peppino e Martino non mi lasciarono andare da solo all’appuntamento, e mitra nel sacco, a distanza visibile, mi seguirono.
Arrivato sul posto fischiai il segnale stabilito e subito ebbi riscontro. Il sottufficiale tedesco puntuale si affacciò da una siepe che costeggiava il Naviglio e si fece incontro. “Non sei solo!” (aveva visto delle ombre). Poi porgendomi la mano disse: “Piacere di conoscerti. Fidatevi, io non vi tradirò…” poi sorridendo “un’altra volta vieni da solo come eravamo d’accordo”. Cercai di giustificarmi, ma lui mi interruppe dicendo: “Capisco…” Mi consegnò un sacco in cui c’erano sei pistole e un mitra. Ci salutammo e scomparve nella nebbia.
Il mitra e le munizioni furono nascoste nel fienile dell’amico Filisin mentre consegnammo tre pistole ad Albertino che doveva mandarle in “montagna” tramite staffette. Nella circostanza Albertino mi raccontò di un episodio accaduto a due staffette , Antonietta Chiovini (sorella di Nino, comandante partigiano delle “Fiamme Verdi”) e sua sorella Giuseppina: mentre le ragazze viaggiavano sul treno verso Domodossola, salirono sul treno una decina di tedeschi della S.S. Che incominciarono a ispezionare tutti i bagagli dei passeggeri. Lo sgomento delle due ragazze fu superato dall’astuzia femminile. Nelle loro borse oltre alle pistole vi erano dei giornali, il tutto era nascosto da abbondante frutta. Le due giovani sorridendo con calma andarono incontro ai tedeschi, aprirono le loro borse mostrando senza reticenza il contenuto e offrendo la frutta. Tutto andò per il meglio.
Le nostre armi erano bagnate di sudore e talvolta anche di sangue, la strada da percorrere era impervia anche per i collaboratori: il sergente tedesco in seguito venne scoperto. Fortunatamente avvisato in tempo, poté raggiungere una formazione partigiana lontana da Bernate (nell’Oltrepò) e fu salvo. Lo rividi ancora nelle giornate della Liberazione, in divisa partigiana. Era ritornato per rivedere gli amici prima di partire per la sua terra. Nel salutarci ci disse: “Mi ricorderò sempre di voi” nel suo sguardo traspariva la gioia e la certezza di essere stato utile a una giusta causa. Poi chiese se era possibile avere come ricordo il distintivo che portavamo sulla divisa, con il motto del raggruppamento: La vita per l’Italia e per la Libertà. Fu subito esaudito. Lo guardò e disse: “Questo mi ricorderà i partigiani di Bernate”. Salì sul camion che faceva servizio fino al Brennero e con voce che tradiva l’emozione disse: “Viva la Libertà”
Affascinante parola. Esaltata da poeti e letterati.
Il poeta Paul Eluard lo esalta così in una sua poesia:
… Sui quaderni di scolaro
Sui miei banchi e gli alberi
Su la sabbia su la neve
Scrivo il tuo nome
Libertà.
Giuseppe Spezia (Pinetto)